e non sei più tornato
il bisogno di presenza
La mia tesi di laurea, discussa nel 2006, parlava di Palestina. Nel 2005 ho trascorso un periodo a Nablus, in Cisgiordania, a insegnare danzaterapia alle donne palestinesi, e sono tornata con la sensazione che qualcuno dovesse fare qualcosa, perché nessuno stava facendo niente. Non ho poi fatto nulla di rilevante. Non ricordo cosa contenesse la mia tesi. Credo di non averla riletta prima di consegnarla. Non penso l’abbia letta neanche il mio relatore, un docente di economia a quanto pare cocainomane, morto poi, sempre a quanto pare, per le conseguenze dell’uso decennale della sostanza. In quel periodo bevevo, mangiavo e vomitavo e avevo un’ossessione amorosa per un cantante che mi aveva portata a letto un paio di volte, per poi non cercarmi più. Io pensavo tutti i giorni a lui, lui non ricordava il mio nome.
La tesi era qualcosa che dovevo mettere insieme nei ritagli di tempo tra un’autodistruzione e l’altra. Mi ricordo che l’ultima volta, la seconda, che avevamo scopato io e il cantante, mi ero rilassata per un secondo dal ruolo di donna passiva e compiacente, troia insaziabile dai mille buchi come mi immaginavo mi volesse lui; avevo fatto una battuta intelligente e lui mi aveva guardata dicendo: “Vedi, questa sei tu, questa io voglio”. “Questa” che lui voleva non c’era mai, non ci riusciva. Era distrutta dal dolore e non si fidava di nessuno. Preferiva restare nascosta. Preferiva recitare qualsiasi ruolo pur di non essere se stessa.
Alla discussione della tesi, a cui non ho invitato né familiari né amici, mi sono accorta di dove mi trovavo solo quando una docente della commissione ha esclamato: “Signorina, lei ha una media eccellente ma la sua tesi contiene punti sconclusionati, frasi senza senso e poi, mi dica, cosa vuol dire: ‘sono andati via e non sono più tornati’. Chi? Come possiamo prenderla sul serio, signorina?”. Mi hanno proclamato senza lode. 110 e vada via, nonostante la mia media del 30. Pensate quanto fosse pessima la tesi per costringerli a fare questa scelta. Ma io non ero proprio presente. Non c’ero. Nessuno fuori a celebrarmi, neanche io.
“Sono andati via e non sono più tornati”. Forse quella era la mia tesi vera e propria. Parlavo di diaspora palestinese. Di individui, famiglie, ceppi e clan interi che, non vedendo soluzioni al problema – quel grosso problema che oggi chiamiamo Israele –, se ne erano andati. Avevano lasciato quella terra che oggi viene presidiata da pastori anziani e bambini coraggiosi. Bambini che hanno occhi da adulti e lo spirito dei morti che camminano. Che non sanno più provare trasporto o entusiasmo, aspettano solo la fine, resistendo al desiderio di morire. Più che urtarmi il carnefice, Israele, mi ha sempre urtato l’assenza. La fortissima assenza degli assenti. Assordante. E non sto parlando solo di assenti nel corpo, di coloro che erano fuggiti dalla propria terra. Sto parlando di assenti che sulla carta erano pure presenti. Un’intera classe politica corrotta dai soldi occidentali. La vogliamo considerare “presente”? Una classe politica che ha fatto molto poco per il benessere dei palestinesi, nel facile alibi della pur terribile occupazione israeliana. È presente qualcuno che non si prende cura di te pur avendone gli strumenti e l’autorità? L’ho vista la tomba di Arafat e non ho pianto una lacrima per lui.
Cosa c’entra la Palestina? Per me c’entra sempre. Per esempio, io ho due sorelle più piccole di me. A lungo ho pensato che loro avessero avuto fortuna. Loro papà in casa lo avevano avuto tutto il tempo. Io mai, solo a singhiozzo. Poi negli anni ho capito che deve essere perfino peggio convivere con uno che non ti vede e non ti sente anche se è lì, davanti a te. È questo il destino dei figli dei malati di ego, chiamiamoli narcisisti, per capirci. Mio padre è stato divorato dalle fiamme della sua mania per se stesso e ha perso quattro figlie luminose e dolci come il sole di settembre. Da lui nessuna di noi ha imparato la presenza, ma neanche l’assenza. Era una specie di non-presenza, è uno stato zombie in cui la persona sembra esserci ma non c’è. Non intendo incolpare solo questo pover’uomo di mio padre, di cui parlo ogni volta che prendo in mano una penna. So che quello che ci ha dato è stato quello che ha ricevuto lui e così si fa la storia, finché qualcuno non cambia il copione. Lo posso ringraziare per alcune cose, per altre meno, come tutti. Per esempio, a lui devo la mia sobrietà, perché mi ha indicato quella direzione.
Il mio primo ritorno alla presenza è stata infatti la sobrietà. Sono entrata in un programma che prevede l’astensione dal consumo di alcol e vivo senza alcol, senza sentirne il bisogno, da quindici anni. Poi ho seguito un altro programma per smettere di abbuffarmi e vomitare. Anche quel problema, risolto. Poi un altro programma per il sesso e l’amore, e be’, come potete immaginare su quello sto ancora lavorando. Ritornare presenti a se stessi è doloroso come rinascere perché devi passare per un buio e stretto canale vaginale che sembra non avere fine, ma se riesci ad attraversare il dolore ti aspetta l’abbraccio caldo della terra, proprio come un neonato trova la madre appena uscito.
Chi beve, mangia, si droga, lavora o scopa senza controllo non è cattivo: cerca di anestetizzare un dolore che non riesce a provare, perché è da solo. Nessuno dovrebbe essere così solo davanti a tutto quel dolore. Quindi, quando smetti di anestetizzarti non dovresti essere da solo. Dovresti essere circondato da persone dalle braccia grandi e calde. Io le ho trovate, ho avuto fortuna. Ho avuto sempre meno bisogno di anestetizzarmi. E sempre più bisogno di essere presente, insieme agli altri. Essere presente era un problema per me perché da piccola – quando avrei dovuto ricevere amore, presenza e cura costante e qualcosa è andato storto – il messaggio che ho ricevuto io è che così com’ero non ero amabile, non valeva la pena di essere presente per me. Così sensibile, così delicata. La maggior parte delle volte il dolore mi moriva in bocca, ero incapace di esprimere un disagio difficile da articolare a parole, tantomeno da risolvere. In famiglia, infastiditi dal non trovare una soluzione, bollavano certi dolori come “tutte minchiate, tutte fisime, tutte cazzate”. L’unica che non sbolognava le questioni era mamma, che però riusciva a offrire solo uno sguardo impotente e preoccupato, spezzata com’era dal dolore di questo padre-tornado. Spesso mamma si distraeva per non morire. Non la biasimo. Assentarsi, per alcuni di noi, è l’unica strategia di sopravvivenza. E, per chiarezza, a lei devo tutto: mi ha cresciuta con l’amore di cui era capace, infinito e insufficiente, come tutte le mamme.
Io mi sono assentata da me stessa cacciando via la parte più autentica di me – quella fragile, complicata, esigente – nella stanza più lontana, dove non potesse dare fastidio. Ho il terrore che qualcuno la conosca e pensi quanto è poco speciale, degna di nota, com’è noiosa, com’è bisognosa. Mi sono detta: se voglio essere amata innanzitutto non devo essere io. Invece devo essere geniale, sagace, intelligente, astutissima, provocatoria, eccezionale, straordinaria, unica, speciale, determinata, autosufficiente. Non potete capire quanto sia stancante e inutile mettere in piedi il circo di se stessi. Essere qualcun altro è un lavoro estenuante e non esce neanche bene: devi sempre stare attento che non coli il trucco, che la parrucca resti dritta e la maschera non sbordi dal viso. Devi dire sempre no quando vuoi dire sì e poi odiarti per averlo fatto. Devi seguire interessi che interessano ad altri e non a te. Devi seguire carriere che sei convinta ti renderanno finalmente visibile e amabile. Devi studiare il viso di chi hai davanti per capire se è interessato a quello che stai dicendo o se ti abbandonerà. Non rimane molto tempo per essere quando non sei presente.
Per questo, da quando ho ricevuto il dono della sobrietà, non riesco a fare molto altro oltre che essere. Tutte le cose che sembrano dire “chi sei” – sei scrittrice, sei donna, sei questo, sei quello – mi sembrano illusorie, definiscono quell’altra, non me. Io vi posso dire cosa sono in questo momento: l’aria di mare fresca che penetra nel naso, l’ape che vola intorno a me, in circoli sempre più vicini alla pelle, uno sguardo materno alle tre ragazze tedesche che si sono addormentate esauste, poggiando le teste sul bancone di questo bar in cui sto scrivendo. Sono perfino i cani che abbaiano in spiaggia, poco distante. Mi viene da sorridere quando mi chiedono una biografia o una definizione. Non so mai cosa dire.
Eppure sono ancora gli assenti la presenza più forte della mia vita. Quelli che mi abbandonano, mi ghostano, attaccano il telefono – vi prego non fatelo mai –, sbattono la porta, si allontanano. A loro dedico la maggior parte del mio tempo e del mio cuore. Della loro assenza faccio una casa piena di fantasmi. Della loro assenza approfitto per non essere presente a me stessa. Piuttosto che essere presente a me stessa vivo questo continuo stato di bisogno di questa persona che ora mi sono convinta manca come il sole quando è nuvolo. Ma nessuna persona può essere il sole per qualcuno. Magari fosse così semplice.
Non so se oggi sono presente a me stessa, a giudicare dal mio uso di social media direi di no. Posso dirvi che il desiderio di essere presente nella mia vita è la cosa più vicina all’essere presenti che conosco. Ed è un lavoro quotidiano che prevede spesso chiedermi “come va”, altre volte lasciarmi in pace, spessissimo chiedere ad altri come stanno. (Negli altri mi perdo, negli altri mi ritrovo). È l’unica ammenda possibile oggi per essere stata così poco presente alla mia vita. Per oggi mangerò bene, mi riposerò, farò qualcosa di divertente, cercherò di stare con persone amiche. Ci sono tante cose che vorrei fare, non credo le farò tutte oggi. Mi piacerebbe un giorno ritrovare la mia tesi, rileggerla. Mi piacerebbe anche capire se e cosa abbia senso fare per essere utile ai miei amici, alla mia famiglia, alla mia società, ai palestinesi, perfino, in uno sforzo sovrumano, agli israeliani. Ma ho la sensazione che passi dall’arrendersi a essere qui, per me sola, come se fossi la persona più importante nella stanza.
Presente viene dal latino praesens,-entis, participio presente di praeesse ‘essere a capo’, da esse ‘essere’, con il prefisso prae-. Prae è un modo in cui gli indoeuropei si orientavano nello spazio e nel tempo: prae è chi sta davanti, chi dietro, chi è qui e chi è là. Prae- era uno strumento pratico di orientamento (davanti/prima), ma anche un marcatore di ordine gerarchico (chi sta davanti guida, chi sta dietro segue). È tuttora un prefisso fertile nella nostra lingua, c’è in tantissime parole, ma davanti a essere indica qualcosa che è sotto i nostri occhi e non guardiamo mai: per essere presenti bisogna essere davanti a noi, guardarci, esserci testimoni. Per essere presente, devo staccarmi un poco e guardarmi.
Tutto quello che ho scritto l’ha detto meglio la poeta Patrizia Cavalli in queste poche righe che metto di seguito, per chi è riuscito a essere presente, nella lettura, fino a questo punto:
Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.
(Da Il cielo, 1981)
Grazie per avermi letto.
Vi lascio anche con due piccole indicazioni pratiche:
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Vostra EtimoFuggente.



Essere vicino a qualcuno che ha bisogno di "stordirsi" per affrontare il male di vivere è difficilissimo oltre che doloroso. A volte l'amore non basta, soprattutto se quella persona non decide di voler rinascere. Grazie.
Leggermi nelle tue parole... Non è una consolazione, ma fa sentire meno sola. Grazie