Vado nel deserto. Ci ritorno. L’ultima volta era il 2019. Ci incontriamo tutte a Marrakech, a metà gennaio. Questo è il periodo in cui gli scorpioni e i serpenti dormono nelle tane e il caldo di giorno è non solo sopportabile, ma gradevole. Intorno ai 24 gradi, scende a 0 o 1 nella notte.
La nebbia umida che da mesi mi abita le ossa insieme alla tristezza, una volta atterrata in Marocco mi guarda scettica ma anche un po’ smarrita: piccola mia, come farai senza di me? Non riesco a immaginare di essere altro che questa distesa spenta, questo corpo a cui chiedo di alzarsi, lavarsi la faccia, mangiare qualcosa, fare una lezione di pilates, lavorare, inginocchiarsi, piangere, mangiare e dormire. Tutto perché questa farsa del vivere va conquistata nello spazio e nel movimento. Ma se potessi, in questo momento, vorrei il bottone per mettere in pausa la vita. Per scomparire.
Con questo gruppo di tredici donne - alcune le conosco da anni, altre da minuti - faccio una cosa che è difficile da spiegare ma che si riassume nella nozione di ecosomatica. Camminiamo, muoviamo, ascoltiamo e osserviamo il nostro corpo in natura. La relazione che esiste tra il corpo e il vivente. Gli schemi di movimento, quelli antichissimi che ci hanno portato a stare in piedi. Abbiamo una maestra. Siamo un gruppo eterogeneo, ma siamo tutte donne. C’è chi danza, chi pratica osteopatia, chi è alla ricerca di qualcosa e non sa mai cosa sia, come me, e poi c’è anche una donna che fa terapia con delle cassette di sabbia ed è venuta nel deserto per capire meglio la sabbia. Mi sorprende sempre la capacità delle persone di sorprendermi. Marrakech ci sfinisce in poche ore dall’arrivo, accogliamo l’urlo serale del muezzin come un invito a partire. L’odore di Marrakech è uno strano misto tra unto, ambra, cumino, carne macellata e merce cinese.
Sembra una condanna della mia vita fare cose che per me hanno assolutamente senso e sono cose essenziali e fondamentali senza sapere bene come spiegarle alle persone che fanno domande semplici come “cosa fai nella vita?”, “come stai?”, “che c’è, che ti passa per la testa?” Se non facessi cose che stanno tra il visibile e l’invisibile, il manifesto e l’occulto, il conscio e l’inconscio non potrei sopravvivere. Come fate, voi che mangiate pane e bevete acqua e guadagnate soldi e vivete la vita a non avere tutti i giorni bisogno di un miracolo? Io almeno uno, altrimenti deperisco. Muoio subito.
Guida il nostro pulmino attraverso la catena dell’Atlas un autista che ogni tanto grida “cinture!” e noi tuffiamo le mani per prenderle e metterle di fretta. Poi i poliziotti che ci fermano - tanti, un posto di blocco ogni mezz’ora - gli sorridono e lo salutano e si dicono qualcosa che ovviamente non capisco ma sembra che stiano prendendo in giro qualcuno, forse noi. In due giorni di viaggio Marrakech diventa un paesaggio di montagne innevate che diventano distese di terra ocra fino a che non arriviamo al limitare del deserto. L’aridità ha diverse modulazione, non è tutta uguale. Ci aspettano i dromedari - una gobba è dromedario, due è cammello - che porteranno i nostri bagagli, l’acqua, le tagine, le tende, le coperte, le forchette, i materassini, il pollo, i limoni, le carote, le zollette di zucchero e la tisana di verbena. Tutto avrà un indistinto afrore di dromedario, gentile, persistente.
Amore mio, come abbiamo fatto ad arrivare qui. Come abbiamo fatto a essere una notte di festa a Marrakech, con colori, trombe africane, incantatori di serpenti, risate sguaiate per poi diventare, negli anni, senza che ne accorgessimo, una distesa brulla, le nostre intenzioni stanche come sabbia, un vuoto che ospita altro vuoto, una distesa di dune che non promette altro che arsura e morte?
Il programma del viaggio - di questa cosa che non vi so spiegare - è semplice. Alla mattina camminiamo circa quattro ore attraverso il deserto. Al pomeriggio pratichiamo (praticare è il verbo che racchiude nel modo più semplice questa cosa che noi facciamo in natura). Se ci vedeste da fuori direste che stiamo rotolando nella sabbia. Ma noi sappiamo cosa stiamo facendo. Nelle prime ore capisco chi ha figli, chi no, quali sono i segni zodiacali, chi è sola, chi è inguaiata. Tra noi c’è una ragazza di dodici anni. Ha una verruca ai piedi e due occhi dolci. Sul pulmino sorride, guarda, fotografa. Poi di colpo sua madre grida fermatevi e la bambina (è una bambina una persona di dodici anni?) fa appena in tempo a lanciarsi fuori per vomitare. Fino a pochi minuti prima diceva che stava bene e che non soffriva l’auto. Anche lei non chiede aiuto quando ne ha bisogno. Io ho deciso che lei sarà la mia amica di viaggio, il mio piccolo principe. Lei ha deciso che disegnerà dune e dromedari. Nessun cappello, nessun elefante, nessuna pecora prigioniera in una scatola. Solo dune libere e soli gialli.
Come ho fatto, amore mio, a non accorgermi che stavamo diventando sterili? Come ho fatto a non vedere che ci eravamo persi? Come ho fatto a non accorgermi che (piccoli soffi di sabbia corrono sulla duna sollevati dal vento). E ora mi sono svegliata ma al contrario, mi sono svegliata in un brutto incubo. Stavo sognando che stavamo bene (ok, non facciamo l’amore ma è un momento), che avremmo avuto una famiglia (ok, ci sta pensando, ma certo che vuole un figlio, chi non vuole un figlio), sognavo che mi amassi (ok, non c’è mai, ma è importante che io sappia stare anche da sola, no? Altrimenti sono davvero troppo bisognosa). La realtà è il mio brutto incubo. L’amore che abbiamo costruito è una specie di carillon odioso, dove la ballerina gira intorno a sé e deve anche darsi il giro di manopola da sola per ricaricare il movimento. Tu sei imbarazzato dalla scarsità del nostro amore. La tua risorsa principale: la fuga. Questa volta la dichiari. Te ne vai, dici, proviamo a fare spazio. Io decido che non la voglio più vivere questa vita. Tua madre mi guarda e mi dice: “Per un uomo? Ti leveresti la vita per un uomo? A mio figlio voglio bene, ma non vale così tanto”. Ora l’ultima palma da dattero che vedo prima di marciare verso il nulla mi dice: “secondo te io per cosa vivo?”
Camminiamo in fila indiana, in silenzio. Io in realtà parlo spesso, soprattutto con un’amica che non riesce a non parlare, come me. Quindi parliamo anche se sarebbe proibito. Non proibito, ma insomma, sarebbe meglio stare zitte, noi invece niente, dobbiamo parlare. Nel deserto puoi parlare e nessuno ti sente. La marcia si ferma verso le due, i beduini che ci accompagnano e che ci precedono con i dromedari hanno già montato le tende. Scelgono piccole oasi asciutte, anse eleganti tra le dune, dove le tende sono più riparate dal vento. Mangiamo insalate di pomodori, mais, cipolla e pomodoro, olive piccanti. Il pane lo cucinano loro vicino al fuoco, anche sotto la sabbia e non so come sia possibile ma non resta sabbia nell’impasto. Il freddo arriva seguendo l’ombra che il sole lascia abbandonandoci. È un freddo immediato. Non ha umidità a cui aggrapparsi. Noi siamo arrivate con sacchi a peli tecnici che hanno numeri in grado di stabilire la soglia di comfort o di limite, in base alla temperatura. Il mio dice che posso provare comfort fino ai tre gradi, se sono una donna, fino a meno tre, se sono un uomo. Prima di infilarci nel sacco a pelo ci mettiamo calze termiche, due maglie tecniche, pantaloni di lana morbida, due paia di calzettoni. Ci sediamo davanti al fuoco. Aggiungiamo lunghi rami di legno bianco per nutrirlo. Ci facciamo riempire la boule di acqua calda prima di dormire. Io mi faccio dare anche due coperte. Poi nelle tende, in silenzio, ci seppelliamo sotto tutti gli strati, eccitate di essere nel deserto, rassegnate al suo rigore, come ad un amante severo ma irresistibile. I beduini si raggomitolano in una coperta, vicino al fuoco che si spegne e questo a loro basta. Verso le tre di notte il freddo ha già conquistato tutta la mia coperta superiore. Il sacco a pelo sembra cercare di resistere alla morsa, con il suo misterioso complesso di tessuto tecnico, piuma, poliestere di laboratorio. Mentre sento il primo impercettibile alito di freddo accarezzare le cosce attraverso il sacco a pelo, immagino gli scienziati nei laboratori che fanno le prove, per capire le temperature e le loro resistenze. Ma loro non conoscono le mie cosce e il mio disperato bisogno d’amore e affetto. Ormai il freddo mi ha svegliato e sto tifando perché il sacco a pelo respinga l’avanzata del rigore. Ma come un uomo che non sa abbracciare, il tessuto intorno a me si ricorda di essere plastica, incapace di vero calore. Anche se è una plastica studiata in laboratorio.
Amore mio, mi hai prestato il sacco a pelo avvertendomi che sarebbe stato anche troppo caldo. A malapena regge una notte nel deserto. Impossibile rilassarsi e lasciarsi cadere nel sonno. Lo sai, amore mio, quanto ci vuole a scaldare un corpo? A farlo sentire protetto, rilassato, amato? Amore mio, quanto male ti ho chiesto un figlio. Prima l’ho dato per scontato. Mi sono detta, ci amiamo, vorrà dire che vogliamo un figlio. Poi ho cominciato a fare battute, sebbene mi avessero detto che non è argomento su cui scherzare. Una ginecologa che pagavo duecento euro a seduta mi aveva detto: lo prenda una sera, lo guardi negli occhi e gli faccia capire quanto è importante per lei. La sera stessa ci avevo provato, ma io, che sono uno scherzo per me stessa, come faccio a farti capire quanto muoio dalla voglia di avere un figlio. E non ci sono riuscita. Poi dalle battute sono passata direttamente alle minacce. Senza passare per il dialogo. Un figlio preteso, richiesto, pianto, implorato. Nel frattempo non mi ero neanche accorto amore mio, che non facevamo più l’amore. Quando allungavo la mano sul tuo coso la toglievi con forza, come se fossi una pazza che sta cercando di svegliare un bambino che finalmente dorme. Allora te l’ho domandato in modo chiaro: lo vuoi un figlio con me? Tu mi hai risposto ora no. Hai risposto “ora no” talmente tante volte che ho compiuto quarant’anni. Quando ho compiuto quarant’anni ho sentito il deserto nelle ovaie.
Allora camminiamo. Però prima di partire al mattino facciamo colazione su un tappeto steso sopra una duna. Formaggini, piccole piadine di farina di semola calde e unte, marmellate di fichi neri o di fragola, salsa dolce di arachidi e miele. Banane, mele. Tè caldo, caffè e acqua bollente. Ci laviamo la vulva, il culo e le ascelle con il residuo di acqua della boule, ancora tiepida. Alcune di noi cagano, altre non riescono. Io i primi due giorni spingo così forte e non esce niente, ogni tanto fa capolino qualcosa, io cerco con le mani di spingerla fuori, ma lei è timida, la mia cacca, forse non vuole essere abbandonata qui in mezzo al deserto. Ci laviamo i denti in modo sommario. Prima di camminare riprendiamo contatto con lo scheletro, quella cosa dentro leggera e forte, che sa stare in piedi. L’uomo berbero che ci guida è magrolino, basso, indossa una tunica leggera azzurra. Pattina sulla terra e non riusciamo a capire come faccia a staccarci così tanto, nonostante sincronizziamo i passi con lui. Attraversiamo una spianata tremenda, riarsa, dura, terrosa. Non c’è sabbia per ora, solo terra secca, pietre aguzze. Io levo le scarpe ogni tanto per sentire la terra, ma è troppo doloroso, rimetto le scarpe. Però mi dispiace perché toccare la terra con i piedi è intimo, è personale, è dire alla terra sono tua. Anche se la terra è piena di pietre aguzze. La spianata dura per sempre, penso di non farcela. Comincio a elencare le cose per cui essere grata dalla A alla Z. A come apertura, perché a un certo punto la nostra maestra dice che solo se c’è apertura è possibile conoscere la direzione. L’apertura si verifica nel petto, nelle spalle, intorno al cuore. Se provi ad aprire un po’ il petto ora la senti. Alla B sono già persa perché non sembrano molte le cose per cui essere grati con la B. Barba? Bombe? Burro, sì sono grata per il burro, è molto buono. Ora non ce l’ho il burro, ma solo sapere che nel mondo il burro esiste è già un motivo per essere grata.
È impossibile attraversare il deserto senza pregare, amore mio. Così come è impossibile attraversare l’abbandono senza invocare aiuto. Così fa l’uomo. Rimane solo e invoca qualcuno che non c’è. È l’unico modo per me di sopportare la tua assenza. Invocare la presenza di uno che si è fatto vedere ancora meno di te e di mio padre. Tutti gli uomini della mia vita mi abbandonano. Ma non solo a me, tutti siamo abbandonati. Nel deserto questo è molto chiaro. Fino ad allora la testa mi ha riempito di teorie su un tuo ritorno. Appena sono arrivata nel deserto, il deserto mi ha detto: tranquilla, sei sola.
Piano piano, dopo due giorni, ci avviciniamo alle dune. Le enormi gatte soffici che dormono nel deserto. La sabbia in quelle zone è così fine che sembra polvere. Ora camminare sembra un gioco. È come impastare con i piedi una gigantesca massa morbida, dove a ogni passo puoi sprofondare. Le scarpe si riempiono di sabbia, i pantaloni assorbono sabbia, anche i pensieri e il tempo. La sabbia scivola dentro ogni dialogo. La sabbia seppellisce la vita. Ma poi accade qualcos’altro. Accade che ci accorgiamo di una cosa. Alcune lo notano prima, altre dopo. Il deserto è fiorito. A novembre c’è stata un’alluvione e ora ci sono intere vallate popolate di cespugli fioriti. È una cosa che succede, ci dice la nostra guida, ogni dieci, quindici anni. È una benedizione. È un fatto da celebrare.
Buffo come i miracoli mi colgano sempre malinconica, come i compleanni. Ho sempre un viso triste nelle foto dei compleanni. A questa miriade di cespugli di fiori viola però non gliene frega niente che io li celebri, lo fanno da soli. È la moricandia, una brassicacea rara, che ha saputo trasformare il proprio processo di fotosintesi fino a diventare capace di resistere al clima desertico. Mi accorgo dell’entità del miracolo quando comincio a vedere che le distese di fiori viola sono più di quante potessi immaginare. Non era così il deserto nel 2019. Era deserto, era il deserto come lo puoi disegnare da bambina, secco secco, non questa sinfonia di arsura e fioritura di cui non si riesce a vedere la fine. Un’amica camminando mi dice che l’acqua che ha nutrito questi fiori non è l’acqua come la conosciamo, cioè l’acqua pasticciona che goccia, che sversa, che riempie. È più un impulso elettrico, un’acqua talmente rarefatta, in grado di creare fili invisibili a occhio nudo, tessiture sottili che si trasmettono e risalgono nella sabbia, fino a trovare semi che hanno dormito per quindici anni, che non hanno atteso niente per quindici anni, fino a quando una sottile informazione d’acqua ha risvegliato il lavoro, il tremendo obbligo di fiorire nel deserto. Noi siamo qui. Ora, attraversiamo paesaggi di dune fiorite. Noi siamo qui ora. Respiriamo in un deserto fiorito. Alle volte penso che Dio mi consideri una deficiente perché mi offre immagini così chiare, così evidenti che credo dubiti del mio senso di osservazione. Eppure così dev’essere. Perché anche davanti a un deserto fiorito rimango scettica, asciutta, restia. Che sciocca.
Foto di Chiara Vegetti
Amore mio. Non sei tu. Sono io. Non sei tu che ti sei dimenticato di annaffiare il mio grembo. Ti vedo con le tue piante: le guardi, le annaffi, le tratti con un amore silenzioso e quotidiano. Sono io che ho lasciato a secco i piccoli semi di me. Quando sei partito, di nuovo, questa volta per due, forse tre mesi, quell’acqua che avevo tenuto congelata dentro di me per quarant’anni si è sciolta tutta insieme, mi ha gonfiato gli occhi, ha esondato sul petto, ha allagato il pavimento, ha travolto gli amici, i familiari, avevo lacrime così tonde e grosse che sono rotolate fino al deserto, hanno rivelato ricordi luminescenti, fondali oceanici, speranze morte, tutti i miei cupi pomeriggi solitari a pensare di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato per essere così sola. E invece no, avevo solo sette anni ed ero figlia di un mondo rotto. Nuotando nelle mie lacrime calde mi domando perché voglio questo figlio così tanto. Per amarlo. Per dare un nome a una persona. Per quell’odore di latte che ho sentito. Per quella vita che ne tiene dentro un’altra, e poi un’altra. E se si dovesse fermare questa riproduzione? Di quante vite dopo quella di mio figlio ho bisogno per sentirmi sazia di vita? Come le dune, che mentre le guardi ne immagini altre dopo ma l’occhio si sente travolto perché c’è sempre una duna in più di quella che l’occhio pensa di poter vedere e di quelle a cui puoi pensare. È il deserto che ti divora, come il futuro.
Al rientro vado a leggere l’etimologia di deserto. L’etimologia, la mia forma di preveggenza al contrario, l’amica che mi dice sempre: te l’avevo detto. Te l’avevo detto con una parola che tu non sapevi ancora decifrare. Quindi deserto, dal latino desertu(m) ‘solitario, abbandonato’, deriva dal participio passato di desĕrĕre ‘abbandonare’, propr. ‘lasciare incolto’, da sĕrĕre ‘seminare, piantare’. È qualcosa che non è stato inseminato, come me. Ma il mio deserto, quello che ho visto io, era pieno di semi che aspettavano solo una pioggia miracolosa.
Ho ancora tante cose da raccontarvi del deserto, quindi nelle settimane a venire arriveranno ancora appunti e storie, fino a quando la sabbia continuerà a uscire dalle borse, dalle scarpe, dagli occhi. Vi devo anche ringraziare perché sono mesi che sto male e una delle cose belle di quando stai male è che le cose che ti fanno stare bene sono poche ma molto chiare, non si mescolano nella frettolosa frantumaglia delle giornate felici e scrivervi qui, adesso, è un raro, inaspettato momento di felicità. Come un fiore nel deserto.
Foto di Cinzia De Lorenzi (che è anche la mia maestra)
💓 bellissimo e doloroso - ma anche divertente e tutto fiorito
“Quando ho compiuto quarant’anni ho sentito il deserto nelle ovaie.”
Un vuoto allo stomaco. Le tempie pulsano. Gli occhi bruciano. Sei incredibile.